Obongo, Obocu e Obongazio
si incontrano per trascorrere insieme la serata.
Cena in ristorante bagnata
da ottimo vino e conclusa con il dovuto quantitativo di digestivi; è il momento
di proseguire verso la discoteca.
Obocu però mostra segni di
cedimento; la stanchezza accumulata il giorno prima gli sta presentando il
conto e preferirebbe andare a dormire.
Sfortunatamente per lui, i
tre hanno fatto equipaggio nella macchina di Obongazio e sono ormai vicinissimi
alla discoteca; Obocu fa buon viso a cattivo gioco e prosegue la serata “Se
proprio crollo dal sonno, mi sdraio sul sedile di dietro e dormo, poi al
ritorno guido io tanto stasera non bevo”.
Si avviano.
Obocu, come previsto,
finisce le energie quasi subito e si ritira in buon ordine nella macchina di
Obongazio a pisolare, in attesa del ritorno degli altri due.
Obongo ed Obongazio invece
se la spassano alla grande, ingollando un drink dopo l’altro, complice la
presenza di un vecchio amico al bar che glieli elargisce gratuitamente.
Dopo appena un’oretta i due
sono cotti al punto giusto e dopo una lunga serie di mojito si buttano in pista.
La quantità di alcool
ingerita è tanta e saltellare come due invasati li aiuta a smaltire almeno il minimo
essenziale prima di rimettersi in strada.
L’ora si fa tarda e i due
tornano alla macchina per trovare Obocu, il guidatore designato, rannicchiato
in posizione fetale sul sedile di dietro, immerso in una sorta di coma: qualche
colpetto sulla schiena al quale non fa seguito nessuna reazione motoria, evidenzia
subito che il sonnolento amico non ha nessuna intenzione di aprire gli occhi,
condizione imprescindibile per chi deve guidare.
Ora, alla luce dei dati
raccolti in tanti anni di feste e relative attività alcoliche vissute insieme,
i due sanno bene che Obongo al netto di una pinta di birra dà molte meno
garanzie di Obongazio dopo una bottiglia di whisky: quest’ultimo non ha altra
scelta che mettersi al volante.
“Ce la fai?”
“Sì, sì.”
“Vuoi che guidi io?”
“No, preferisco vivere.”
Obongazio parte e si fa
forza pensando che alle quattro del mattino su quel pezzo di strada la polizia
non l’ha mai vista. Con suo sommo disappunto, gli bastano pochi chilometri per
vederne anche troppa, manco fosse la serata in cui vengono effettuati in
un’unica soluzione tutti i controlli stradali dell’intero mese, per far
quadrare la media giornaliera. Una dozzina di auto pattuglia scorta Obongazio
ed un lungo convoglio di altre vetture incolonnate, verso un punto poco più
avanti, dove gli autisti sono attesi dall’inesorabile prova dell’etilometro.
Parcheggiati in attesa del
loro turno, vengono raggiunti da un agente munito di pila, per un primo
controllo dell’autovettura.
La scena è surreale.
Costui punta la luce dritta
in faccia a Obongo ed Obongazio.
I due prima strizzano gli
occhi abbagliati, poi ricambiano con un divertito sorriso (o la smorfia
alcoolica equivalente).
L’agente dirige allora la
luce verso il retro, dove giace Obocu avvolto nel suo sonno imperturbabile, a
bocca aperta e con un po’ di bava che dalla bocca cola sul sedile.
“E quello lì? Cosa gli
avete fatto?”
I due spiegano che Obocu è
solo vittima di troppa attività sportiva e poco sonno, ma che è vivo, sta bene
e non è sotto effetto di droghe.
L’agente però non sembra
convinto e inizia a dare colpetti con la torcia ad Obocu, il quale questa volta
per fortuna reagisce agli stimoli con un sussulto scomposto, tira una bestemmia
commista ad uno sbadiglio, per poi effettuare una rotazione del corpo di 180° e
ricominciare da dove era stato interrotto.
“È vivo, vede agente,
gliel’avevo detto” esclama Obongo assertivo (o l’equivalente alcoolico), mentre
Obongazio riesce nella sopraffina impresa di ridere per questa inopportuna osservazione
con la sola parte destra del viso, quella rivolta verso il suo amico, e
contemporaneamente a contrarre la parte sinistra, quella rivolta verso
l’agente, in una smorfia di disapprovazione.
“Lo scusi agente, ha bevuto
un po’ troppo.”
Obongo sorride con gli
occhi all’agente accostando indice e pollice nel gesto di “solo un pochino,
così”.
“Favorite un documento.”
Obongazio porge la patente,
Obongo porge la carta di credito.
“Questo non è un
documento!”
“Come no, agente? C’è
scritto il mio nome sopra, io mi chiamo proprio così: O ß Ø N ¥ G § H Ô” biasciando le lettere in un bizzarro spelling mentre cerca di indicarle con la punta dell’indice.
Vedendo la pazienza
dell’agente messa a dura prova, Obongazio intercede mettendo ordine in tutta la
storia: il guidatore doveva essere Obocu e Obongo non aveva preso con sé documenti
sapendo di non averne bisogno per non portarsi appresso cose inutili in
discoteca.
I punti credibilità
guadagnati da Obongazio, rivelatosi l’unico in grado di sostenere una
conversazione articolata con l’agente, non bastano però a evitargli l’etilometro.
Conscio di quanto ha
trangugiato durante tutta la serata si avvia mesto, dà un ultimo sguardo alla
macchina convinto di doversene presto separare, sapendo che le possibilità di
risultare sotto il limite di 0,50 previsto dalla legge al momento sono pari a
quelle di Obongo di distinguere la carta di credito da quella d’identità.
Obongo lo saluta con la
manina dall’abitacolo con uno sguardo preoccupato (o l’analogo alcoolico
equivalente) mentre ripone in tasca la carta di credito.
Dopo qualche minuto
Obongazio è di ritorno.
Si infila in macchina,
allaccia la cintura e mette in moto.
“Scappiamo? Guarda che ci
inseguono e poi ci arrestano.”
“No, no, tranquillo; tutto
a posto.”
“A posto cosa? Hai fatto il
record? Hai vinto un peluche?”
“No, tutto a posto… Davvero.”
Obongazio ridacchia tra sé
e sé.
Obongo non sta più nella
pelle “Quanto hai fatto?”
“0,49.”
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