Si muove con
circospezione.
Mesi di
preparazione: non può permettersi errori.
Non come
l’ultima volta che è stato quasi scoperto.
Questa volta
deve andare tutto liscio; deve farla franca.
Un’occhiata
furtiva al corridoio e poi fa scorrere lo sguardo in tutte le direzioni.
Tende
l’orecchio, per captare presenze inattese.
Sa che ha
poco tempo.
L’ascensore
sta per arrivare, l’ha chiamato lui stesso.
Ha calcolato
i tempi con metodica precisione.
Ha studiato
a lungo i movimenti di tutti gli abitanti del palazzo per essere sicuro di
avere la strada spianata: colpire al piano terra e poi via fino alla salvezza, il
dodicesimo piano.
Può farcela,
deve farcela.
Ha interpolato
i dati sulle abitudini di tutti gli inquilini; ha dalla sua il 99,43% delle
possibilità di non incontrare nessuno.
Nessun’altra
fascia oraria gli garantisce un margine di sicurezza così ampio.
Controlla
l’orologio; ancora pochi secondi.
Il rumore
sarà impercettibile.
Una frazione
di decibel, un piccolo tonfo ovattato che si perderà nell’aria.
L’ascensore sarà
la via di fuga; eccolo sta arrivando.
Respira
profondamente, cerca di controllare il battito; è pronto.
Ora!
PFUUFFF
Il colpo è
stato preciso e micidiale.
Passano
pochi istanti ed ecco l’ascensore: si aprono le porte.
Nessuno in
vista, il crimine perfetto...
“Buongiorno
signor Obonghi! Mi dà un passaggio?”
“ARGH!”
“Le ho fatto
paura?
“No, ecco,
Io... Eh... Buon..”
“Ha perso la
lingua stamattina? Allora mi dà un passaggio in ascensore?”
“Bu... bu...
buongiorno signorina Obonghessa... Non l’ho proprio sentita arrivare... ma
prego, vada su lei io faccio le scale che ho bisogno di fare un po’ di moto...”
“Su venga,
non faccia lo sciocchino, sono dodici piani!”
“Io... No...
Scale... Moto... Claustro... Fobia...”
“Venga, che
con questo caldo, le va su la pressione.”
“Dice?”
“Eh, dico sì!”
Si è
materializzata dal niente la signorina Obonghessa, la sua vicina di casa.
Obonghi
entra rassegnato: le porte dell’ascensore si chiudono dietro di lui e ormai è
solo questione di istanti, o meglio di respiri.
La speranza
che la terrificante puzzona a sfiato che ha mollato restasse al piano terra è
ormai vana e lo sta seguendo come un’ombra; con la differenza che le ombre non
parlano e questo fetore assurdo nell’angusto spazio sta urlando nelle orecchie
della Obonghessa il nome del responsabile di tanto abominio olfattivo.
Scende un
silenzio di tomba; lei non parla per trattenere il fiato.
Il
dodicesimo piano sembra sulla Luna, tanto è l’effetto del tanfo misto al calore
all’interno della cabina; lo smacco finale è il balzo da saltatrice in lungo
con cui la Obonghessa si lancia tra le porte in apertura sbattendo entrambi i
gomiti sulle ante. Atterrata sul pianerottolo, in un’area decontaminata, emette
un curioso risucchio nel tentativo di inalare più aria possibile mentre si
accascia su una parete e a tentoni prosegue rapida verso l’uscio di casa sua.
Il signor
Obonghi, novantaduenne vedovo e in pensione scuote la testa un po’ rammaricato,
ma per fortuna non è tipo da arrendersi facilmente.
Scoreggiare
nell’androne del palazzo è un’arte raffinata che va perfezionata con dedizione
e disciplina.
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